Ho letto con interesse l’articolo sull’Harvard Business Review di Kenneth P. Pucker ex COO di Timberland sul tema della sostenibilità e su alcuni richiami critici all’attuale approccio agli ormai famosi temi ESG. Alcuni aspetti della sua disamina mi sono sembrati interessanti da analizzare. 

Prima di tutto esce sempre il principio della sostenibilità contro il profitto e soprattutto il contrario come se il profitto fosse contro la sostenibilità.

Ricordiamoci che viviamo in un’epoca in cui le guerre le ricordano solo i nostri nonni, in cui i ragazzi e le ragazze possono andare nella stessa scuola e quello delle scuole divise per genere è solo un ricordo dei nostri genitori, in cui non ci sono e non sono tollerate aziende e auto che emettano scarichi che inquinano in modo indiscriminato, in cui la soglia di povertà è ridotta in una percentuale molto bassa della popolazione. Anche in questa pandemia ricordiamoci che in 6 mesi la scienza è riuscita a tirare fuori 3 vaccini con efficacia al 98%.

Viviamo in un’epoca fantastica e per questo decidiamo di restituire qualcosa guardando con ottimismo al futuro. La restituzione non è in termini di profitto perché è vero che l’obiettivo delle aziende deve essere il raggiungimento del profitto perché come spiega bene Friedman e conferma l’ottimo Franco Debenedetti nel suo recente libro non perseguire il profitto innesca un conflitto d’interessi esplicito con la politica che non fa bene alla società.

La “restituzione”, che definiamo sostenibilità, deve essere in termini di approccio e di attitudine. Deve essere in termini di rispetto delle persone e del concetto che la nostra libertà finisce dove inizia quella del vicino. Non credo in una sostenibilità “da salotto” in cui si discute delle belle intenzioni ma credo nell’attitudine nel processo decisionale che rispetta gli altri e porta a termine azioni, anche piccole, ma che fanno la differenza per la comunità. Il caso scuola per me è sempre l’approccio imprenditoriale di Cucinelli che è uno degli esempi di imprenditoria illuminata che abbiamo nel nostro paese.

L’articolo di Pucker riporta in modo chiaro la difficoltà non celata delle aziende di raggiungere il cosiddetto scope 3 della sostenibilità. È difficile ad oggi raggiungere il controllo della supply chain nella verifica del processo di produzione al fine di garantire una catena sostenibile. Non possiamo nascondere che sarà in parte la tecnologia che ci eviterà casi come quello di Petti che, come sembra dalle notizie uscite sui giornali, abbia falsificato documentazione dichiarando che il suo pomodoro era 100% italiano e invece importato. La blockchain, ad esempio, in questo caso sarà uno strumento adeguato a garantire la correttezza e in alcuni casi la sostenibilità dei prodotti. Però scuola sul tema l’ha fatta Alce Nero che invece di garantire una supply chain efficace dal punto di vista di sostenibilità ha creato un’impresa in cui gli attori della catena sono quasi tutti coinvolti nell’assetto societario. Il mio amico Massimo Monti è sicuramente orgoglioso dei risultati ottenuti dall’azienda che guida e lo sono anche, e soprattutto, i consumatori che hanno una garanzia sul processo produttivo di un’azienda che ha fatto del biologico non il punto di arrivo ma di partenza. Un punto distintivo fondamentale sul mercato con azioni concrete che mettono i clienti di fronte a scelte concrete e non solo scritte sui giornali.

Il punto più bello del suo articolo però per me è il greenwishing cioè la volontà, l’aspirazione ancora meglio, alla sostenibilità ambientale e se vogliamo alla sostenibilità in genere. E’ molto attuale questo tema perché leggiamo articoli ogni giorno di aziende che voglio, bramano e comunicano la loro conversione green ma che in realtà sono molto lontane dal loro obiettivo finale e lo usano come un meccanicismo di comunicazione a volte più interna che esterna. Io ritengo sia molto più proficua una politica dei piccoli passi ma concreti piuttosto che delle grandi campagne di comunicazione. Meglio riuscire a garantire le pari opportunità in azienda che dichiarare la volontà di ridurre il proprio impatto ambientale del 10% in 15 anni.  

Il paragrafo della “lack of comparability” in realtà è quasi ridondante con molti dei dibattiti avviati da anni che cercano di creare un sistema integrato di rendicontazione tale da creare la possibilità di confrontare i report di sostenibilità di società operanti anche nello stesso settore. Questo si connette a due punti che, secondo me, sono fondamentali per il proseguo di un’efficace rendicontazione della sostenibilità. Innanzitutto, le informazioni a volte non sono correttamente valutate perché è difficile la comprensione dei risultati ottenuti in quanto servono dei tecnici per saper leggere i report e il cittadino comune non può valutare i risultati ottenuti. In secondo luogo, anche gli analisti durante le famose conf call di presentazione dei risultati periodici prestano poca attenzione ai temi di sostenibilità.

Siamo in generale passati dalla inattività in termini di sostenibilità alla fase delle buone intenzioni. Ancora è da intraprendere il percorso dei risultati concreti che vanno misurati e che portano un reale beneficio comune. 

Infine, mi piace la provocazione di Pucker che si chiede se le aziende più sostenibili abbiano realmente risultati migliori in quanto seguono obiettivi di beneficio comune o vedendolo in modo diverso, come penso anche io, se i manager più bravi raggiungono i migliori risultati possibili di profitto con comportamenti che sappiano rispettare ambiente e persone. 

I migliori sanno sempre massimizzare i risultati e sanno anche comportarsi nel rispetto degli altri. Per questo forse per rendere più chiaro e anche concreto il cambio di paradigma manageriale che ci viene chiesto, dovremmo sostituire la parola sostenibilità con “azioni rispettose” che rende più concreto il lavoro da portare a termine.