Breve storia triste dell’employer branding: nasce come concetto poco più di vent’anni fa, in Italia fa una bella parabola negli ultimi dieci, tantissimi reparti HR iniziano a definire dei veri e propri reparti e job title che sostituiscono il concetto di recruting e selezione e poi finisce impantanato tra le difficoltà di ripresa nel “new normal” post-pandemico e le necessità di spending review. O forse no?

Il cambio culturale che si è prodotto nel nostro immaginario collettivo a seguito del trauma della primavera 2020 dovuto alla pandemia ha già modificato l’assetto comunicativo sul piano marketing dei brand più importanti. Come descrive Andrea Fontana “dai racconti di impresa basati sul successo, sulla forza, il divertimento, il viaggio, la scoperta di sé e del mondo, siamo passati a narrazioni basate sulla cura, sulla reciprocità, sull’elaborazione del dolore e della prudenza”[1]. E ancora (già prima del Covid-19 in maniera profetica) “se prima era la soluzione ad attrarci, con l’eroe vittorioso, ora è la caduta, il problema a motivarci, con i protagonisti che falliscono, esitano, soffrono”[2].

Come deve declinarsi allora la strategia di employer branding in un momento storico dove probabilmente a breve si inizieranno incentivi all’esodo, chiusure e riorganizzazioni? Se in azienda il concetto di employer branding è radicato a quello del recruiting, non avrà vita facile. Eppure il recruiting non può vivere senza employer branding, ma quest’ultimo può esistere indipendentemente dalle posizioni aperte che un’azienda ha la possibilità di comunicare al mercato del lavoro.

Non serve scomodare gli aforismi “galattici” di Steve Jobs su quanto “investire in pubblicità in tempo di crisi è come costruirsi le ali mentre gli altri precipitano”, semmai attivare una strategia che sia in linea con le scelte che il marketing sta già compiendo. Una delle ultime tendenze nel marketing è stata proprio l’ “unbranding”. Le aziende spogliano i loro loghi e distribuiscono i propri prodotti “in tutta la loro nuda gloria”. In un contesto dove la richiesta di autenticità da parte dei consumatori è sempre più alta, in una società forse stanca della disonestà di alcuni messaggi e delle fake news, l’unbranding sembra essere una strategia di comunicazione in crescita che a volte viene erroneamente accostata ad un’assenza di ordine strategico dei valori e delle vision che un’azienda desidera proiettare. Non significa solamente spogliare il proprio prodotto del marchio, ma affidarsi a ciò che rende grande il proprio prodotto. Si tratta pertanto di una disciplina audace ma precisa che ha l’obiettivo principale di generare legami con le persone. Passando dai messaggi che prima del Covid-19 recitavano: “Amami, ti insegno a vivere, per cui comprami” il passaggio ora è : “So che siamo nei guai, ma credo di capire i tuoi problemi, che sono anche i miei, proverò a starti a fianco per fare con te un pezzo di strada insieme” (A. Fontana, ibidem).

Questa impostazione sta facendo virare sonoramente il contenuto dal prodotto alle persone e, pertanto, il ruolo che l’HR può giocare in questa fase diventa fondamentale. Raccontare l’Employer Value Proposition significa anche identificare i protagonisti delle storie di vita professionale e farli testimoni di un messaggio quanto mai necessario all’interno e all’esterno dell’organizzazione. “Proverò a starti a fianco per fare un pezzo di strada insieme”, significa inevitabilmente descrivere il lavoro che c’è dietro la brand image, fatto dalle storie di vita delle persone e in maniera più che autentica.

Poiché una delle grandi difficoltà delle strategie di employer branding è sempre stata quella di rapportarsi con la comunicazione esterna di prodotto (che solitamente non parla di persone) la strada del racconto dell’imperfezione umana, fatta di persone perfettibili, di risultati non ottenuti e obiettivi non raggiunti, potrebbe diventare una scelta di narrazione coraggiosa e ripida, ma che certamente riuscirebbe ad attrarre molto efficacemente la platea dei potenziali employee, (giovani e meno giovani); così come la cura della crescita delle persone e dei loro cari o la sicurezza di esercitare le proprie competenze in un contesto sicuro e deciso, contrapposto all’incertezza totale in cui si vive l’attualità.

In questa cornice le strategie (e i trend) che si evincono come maggiormente efficaci per rendere visibile anche una cultura inclusiva di tipo generazionale sono sicuramente:

  • I Brand Ambassador, nel momento in cui riescano a trasmettere efficacemente le dinamiche generazionali inclusive sposate dall’azienda attraverso lo storytelling.
  • Le “Call for Ideas”, laddove la costruzione delle esigenze che l’azienda presenta all’esterno per raccogliere candidature attraverso nuovi canali sia ideata da team intergenerazionali, dove i temi prediligono inclusività tra generazioni diverse (ad es. scuola, digitalità, genitorialità, etc.) e aspetti sociali e non solo hackathon di tipo tecnologico o espressamente “nerd”.
  • Lo Storytelling intergenerazionale, nel momento in cui la narrazione delle storie professionali rappresenti anche i conflitti e le criticità della vita delle persone, cogliendo la sfida del fare raccontando e del raccontare facendo (il cosiddetto storydoing): passare dal dire al fare, definire strumenti e soluzioni con l’obiettivo non solo di aumentare la notorietà dell’employer brand, ma anche di offrire una reale utilità alle persone per stimolare il loro interesse e il loro coinvolgimento.

La frontiera innovativa dello storytelling di un datore di lavoro che si configura nella “New Normal Era” è quindi una sorta di “Employer Unbranding” dove si comunica in primis la vita autentica delle persone, senza filtri, essenziale: in altri termini “Unplugged”.

Un termine che nella sua etimologia deriva da “unplug”, che sta per “disconnettere, staccare la spina”. E’ il momento forse di staccare la spina dalla consuetudine degli strumenti classici di comunicazione legati ai soli eventi e alle fiere del lavoro (più o meno virtuali) e immaginare un coinvolgimento attivo delle persone in azienda, che possano far risuonare la voce della cultura professionale e del proprio lavoro quotidiano senza l’ “elettrificazione” dello stress comunicativo, dettato spesso dalla mera verifica di aderenza delle narrazioni alle policy di comunicazione aziendale. Per due semplici motivi: 1) fare leva sulle energie interne alle azienda costa meno e garantisce risultati più duraturi; 2) “Perfection is boring”, come dicono le nuove generazioni su TikTok .


[1]www.tpi.it/economia/covid-marketing-impresa-mai-piu-come-prima-sociologo-fontana-intervista-20200917666453/

[2] Fontana A., Ballando con l’Apocalisse, Macerata, ROI Edizioni, 2020.p.58