ECONOMIA CIRCOLARE E SVILUPPO SOSTENIBILE: i sottoprodotti di origine industriale

5 Ottobre 2023
ECONOMIA CIRCOLARE E SVILUPPO SOSTENIBILE: i sottoprodotti di origine industriale

SOMMARIO. 1. I sottoprodotti. Obbligo o facoltà. Il rilievo del principio di prevenzione nel contesto del nuovo modello economico di riferimento per il diritto ambientale comunitario e nazionale. 2. Qualificazione dei materiali/sostanze come sottoprodotti. Presupposti e conseguenze. 3. Conclusioni.

1. I sottoprodotti. Obbligo o facoltà. Il rilievo del principio di prevenzione nel contesto del nuovo modello economico di riferimento per il diritto ambientale comunitario e nazionale.

Il sottoprodotto di origine industriale è definito dall’ordinamento vigente come una sostanza/un materiale o un oggetto, originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, ma il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto.

Pensiamo ad esempio agli sfridi di metallo prodotti dalla limatura di un pezzo meccanico.

Il pezzo meccanico è il prodotto principale, lo sfrido è un potenziale sottoprodotto di quella linea produttiva. Parliamo di “potenziale sottoprodotto”, perché il termine “sottoprodotto” è una categoria individuata dalla normativa ambientale comunitaria e nazionale, ma non è una nozione appartenente al mondo dagli operatori dell’industria.

La sostanza o l’oggetto di cui sopra, per essere qualificati legittimamente come sottoprodotti nel rispetto della normativa ambientale vigente, devono infatti rispondere ad alcune condizioni previste espressamente dalla legge: a) certezza del loro riutilizzo nel corso dello stesso o di un successivo/diverso processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di soggetti terzi; b) utilizzabilità diretta, senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; c) legalità dell’ulteriore utilizzo, vale a dire che la sostanza/il materiale o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti analoghi e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà ad impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.

La conseguenza giuridica principale della qualificazione di un residuo di produzione come sottoprodotto è la sottrazione dello stesso dal novero dei materiali individuati per legge come rifiuti risultanti dall’attività di una determinata linea di produzione, con la conseguenza che non si applicheranno al sottoprodotto le norme relative alla gestione dei rifiuti.

Mentre l’applicazione delle norme relative alla gestione dei rifiuti è, come noto, obbligatoria, l’individuazione e la qualificazione a norma di legge dei sottoprodotti esitati da una linea di produzione non è un’operazione obbligatoria, ma facoltativa.

Il nostro ordinamento, infatti, mentre impone (anche attraverso unanimi e constanti interpretazioni giurisprudenziali) la qualificazione come rifiuto di qualsiasi materiale di cui il produttore intenda disfarsi (salvo che non si tratti dei materiali esclusi dal novero dei rifiuti per espressa previsione del legislatore),[1] al contrario attualmente non impone in modo espresso la qualificazione dei materiali come sottoprodotti.

È opportuno sottolineare però che, tale operazione rappresenta un’importante applicazione in concreto del principio di “prevenzione”, da sempre individuato dalla normativa comunitaria e nazionale come primo criterio di priorità nella gestione dei rifiuti: evitare di produrli alla fonte.

Con l’implementazione a livello nazionale del pacchetto di direttive comunitarie c.d. sull’economia circolare incominciata nel 2020 e via via implementata, il principio di prevenzione è stato significativamente rafforzato e dettagliato con l’inserimento, al comma 2 dell’art. 180 del d.lgs.n.152/2006 (articolo rubricato “Prevenzione della produzione dei rifiuti” e dedicato all’enunciazione ed alla regolamentazione del principio stesso), una espressa call to action normativa rivolta ai Ministeri competenti (sviluppo economico ed ambiente) perché promuovano misure che: a)”riducono la produzione di rifiuti nei processi inerenti alla produzione industriale, all’estrazione dei minerali, all’industria manifatturiera, alla costruzione e alla demolizione, tenendo in considerazione le migliori tecniche disponibili,”[2]sollecitazione che porta a pensare alla categoria dei sottoprodotti industriali; b) “riducono la produzione di rifiuti, in particolare dei rifiuti che non sono adatti alla preparazione per il riutilizzo o al riciclaggio[3], sollecitazione che porta a pensare alla categoria dei rifiuti recuperati a materie prime seconde mediante il c.d. end of waste.

A completamento del quadro, va tenuto in debita considerazione che il principio di prevenzione è una chiara espressione del principio dello sviluppo sostenibile, già da tempo esplicitato nel testo unico ambientale all’art. 3 quater che, tra le altre cose, impone alle amministrazioni di garantirne l’attuazione in concreto mediante la loro azione amministrativa.

Va letta in questo contesto l’adozione da parte del Ministero dell’Ambiente della cosiddetta Strategia Nazionale per l’Economia Circolare (SNEC), risalente al giugno 2022 e rappresentante la risposta del MASE (Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica) alla call to action di cui all’art. 180 comma 2 del d.lgs.n.152/2006 e diretta all’individuazione di strumenti che garantiscano in concreto l’attuazione del principio di prevenzione.

L’Economia Circolare, come noto, è il nuovo paradigma economico a cui la normativa ambientale comunitaria e nazionale si sta gradualmente conformando, delineando un sistema di regole via via più stringenti, atto ad agevolare il passaggio dal modello “dalla culla alla tomba” (ovvero dalla produzione alla discarica) al modello “dalla culla alla culla” (ovvero dalla produzione ad un’altra produzione mediante il recupero di materia o la valorizzazione energetica dei residui).[4]

Il grado di importanza della SNEC si coglie, in particolare, considerando che si tratta di una riforma abilitante del PNRR, in quanto individuata come necessario supporto agli investimenti (e dunque all’allocazione dei fondi) afferenti alla c.d. Missione 2 (M2) “rivoluzione verde e transizione ecologica” – componente1 “Agricoltura sostenibile ed economia circolare“.

Relativamente al tema della presente analisi, la SNEC adottata dal MASE individua tra i temi definiti strategici per la sua stessa attuazione, lo sviluppo di un mercato delle Materie Prime Seconde (tra cui si annoverano i sottoprodotti) e la simbiosi industriale,[5]suggerendo di regolamentarla mediante lo strumento dei contratti di rete, esistente da tempo nel nostro ordinamento giuridico, ma sinora poco utilizzato a questo fine.[6]

Come previsto dalla SNEC, le Regioni si stanno attivando per costituire propri gruppi di lavoro regionali sui sottoprodotti ed economia circolare, che fungono da raccordo tra le Regioni e l’Osservatorio Nazionale per l’Economia Circolare costituito presso il MASE. Al momento risultano costituti i seguenti gruppi di lavoro regionali: Piemonte (cfr. DGR Piemonte 11 aprile 2023 n.10-6722); Lombardia (cfr. DGR Lombardia 12 aprile 2023 n.XII/134).

Il contesto normativo multilivello sopraricordato evidenzia un mutato contesto di riferimento per l’applicazione del principio di prevenzione, da cui la necessarietà dell’applicazione in concreto del principio stesso (anche sotto il profilo dell’azione amministrativa e dunque esecutiva della SNEC e comprendente l’azione amministrativa volta al rilascio delle autorizzazioni ambientali) risulta molto accentuata rispetto al periodo antecedente l’adozione del pacchetto direttive c.d. sull’economia circolare.

È possibile dunque concludere evidenziando che, l’ordinamento multilivello considera oggi maggiormente tutelante per l’ambiente (rispetto alla qualificazione tout court come rifiuto) la ricerca e l’attuazione di sistemi di produzione industriale che riescano ad individuare tra i propri residui di produzione dei materiali/sostanze che possano essere qualificati come sottoprodotti/materie prime seconde, legittimamente utilizzabili come input di altri processi industriali, con la conseguenza che si riducano novero e quantità di materiali/sostanze classificabili come rifiuti.

2. Qualificazione dei materiali/sostanze come sottoprodotti. Presupposti e conseguenze.

In forza dell’art. 184 bis del d.lgs.n.152/2006 “È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183 comma 1 lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto; b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi; c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale; d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana.”

Con Decreto Ministeriale dell’allora MATTM del 2016 ed una Circolare esplicativa del 2017,[7] vengono successivamente individuati ed esplicati i criteri per agevolare la dimostrazione della sussistenza delle condizioni richieste dall’art. 184 bis sopracitato, condizioni che devono risultare tutte contemporaneamente verificate e presenti costantemente presso ciascuno dei soggetti componenti la filiera che si rapporta e/o utilizza quel determinato materiale/sostanza ed in tutte le fasi di gestione dei residui per poter qualificare un residuo di produzione come sottoprodotto di origine industriale.

A questo proposito è opportuno sottolineare che al sottoprodotto non si applica la normativa prevista per i rifiuti, compresa la regola dell’Extended Producer Responsibility (c.d. EPR).[8] Ciò significa che, nel caso in cui una o più condizioni necessarie alla qualifica del materiale/sostanza cessino di esistere, la responsabilità della cessazione è imputabile esclusivamente al soggetto che ha in gestione il sottoprodotto al momento della cessazione stessa, mentre restano esclusi da responsabilità gli altri soggetti della filiera.

Dalla lettura coordinata della normativa sopra ricordata emerge in prima battuta che, risultano esclusi dall’applicazione della normativa sui sottoprodotti: i prodotti; le sostanze ed i materiali esclusi dal regime dei rifiuti (es. suolo non contaminato e altro materiale allo stato naturale escavato a seguito di attività di costruzione); i residui derivanti da attività di consumo.[9]

Va tenuto in considerazione che, le condizioni individuate dal TUA vanno valutate caso per caso per ciascun operatore industriale, anche mediante certificazioni tecniche utili, ma non considerate costitutive e/o esaustive dalla legge. I mezzi di prova per dimostrare la sussistenza delle quattro condizioni richieste non sono tassativi e la legge non richiede necessariamente una prova scritta che però, come noto, resta in ogni caso prova principe in sede processuale ed appare dunque preferibile rispetto ad altri mezzi di prova. Le prove scritte suggerite dalla normativa vigente sono, ad esempio, la scheda tecnica del sottoprodotto, il contratto di compra/vendita tra produttore e utilizzatore, la redazione di un dossier di qualificazione del materiale/sostanza come sottoprodotto.

A questo proposito è opportuno sottolineare che il D.M. e la Circolare esplicativa prevedono la possibilità di iscrizione nell’elenco CCIAA “Piattaforma di scambio tra domanda e offerta” dei sottoprodotti individuati da ciascuna realtà produttiva, ma precisano che l’iscrizione non è obbligatoria e non ha alcun effetto costitutivo.

La condizione potenzialmente dirimente ed allo stesso tempo problematica per individuare correttamente un sottoprodotto è la terza (art. 184 bis co.1 lett. c del d. lgs.n.152/06), ovvero la possibilità di riutilizzare la sostanza/il materiale/l’oggetto senza ulteriori trattamenti diversi dalla “normale pratica industriale”.

La normativa vigente non vuole essere esaustiva nel definire cosa sia e cosa non sia la normale pratica industriale, lasciano a ciascun operatore l’onere/onore di valutare il proprio ciclo produttivo e la filiera di destinazione del potenziale sottoprodotto in modo da identificare in concreto la sussistenza della condizione. Alcune indicazioni più specifiche possiamo invece trovarle nella giurisprudenza comunitaria e nazionale, consolidatasi negli anni dal 1998 ad oggi, e tendenti a considerare “normale pratica industriale” le operazioni “minime” di trattamento, come il lavaggio, l’essiccazione, la selezione, la cernita, la vagliatura, la macinazione, la frantumazione, sempre a condizione che l’effettuazione del trattamento minimo non trasformi il materiale in un materiale del tutto diverso da quello originario (ad es. miscelandolo con altri componenti vergini).[10] In alcuni casi, ci vengono in soccorso anche norme regionali (piuttosto recenti), adottate con l’obiettivo di dare un indirizzo unitario alle amministrazioni competenti al rilascio delle autorizzazioni ambientali di settore,[11] o norme comunitarie e/o nazionali che regolamentano un settore specifico (ad es. utilizzo dei sottoprodotti di origine animale per la produzione del biogas).

Il D.M. n.264/2016 all’art.6 definisce invece la nozione di trattamento diverso dalla normale pratica industriale come “processi e/o operazioni necessarie a rendere le caratteristiche del residuo idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare a impatti complessivi negativi sull’ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo“. Stabilisce dunque che, nel caso in cui il materiale/sostanza presa in considerazione per il riutilizzo debba essere in qualche modo trattata al fine di essere utilizzata legittimamente per l’uso specifico individuato ed, in particolare, tali trattamenti siano necessari per renderla conforme alle regole di tutela della salute umana e dell’ambiente esistenti per quel particolare riutilizzo, tali trattamenti risultano esclusi dalla normale pratica industriale salvo che vengano effettuati nel medesimo ciclo produttivo da cui il materiale/sostanza viene originato.

L’obiettivo di questo vincolo è, infatti, non quello di limitare il novero dei sottoprodotti, bensì quello di assicurare che il materiale non sicuro per salute umana e /o per l’ambiente viaggi come rifiuto e di conseguenza, sin dalla sua prima uscita dal processo produttivo di cui costituisce residuo, con la maggiore tutela assicurata dal complesso di regole esistenti in materia di tracciabilità per l’ambito rifiuti.

Altrettanto essenziali sono le condizioni della certezza del riutilizzo “dello stesso o di un successivo processo di produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi” e della legalità del riutilizzo “ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana”.[12]

Per quanto attiene la certezza del riutilizzo, il D.M. e la Circolare esplicativa chiariscono che la condizione va dimostrata sin dal momento della produzione del sottoprodotto fino al suo impiego e riguarda tutto il ciclo di produzione documentabile. Come sopra detto, la normativa non impone un mezzo di prova specifico, ma attualmente indica la “scheda tecnica e dichiarazione di conformità del sottoprodotto ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n.445/2000” e di cui l’all.2 al D.M. n.264/2016 fornisce un modello, come mezzo di prova potenzialmente idoneo allo scopo.

Relativamente all’ultima delle quattro condizioni, ovvero la legalità dell’utilizzo specifico del sottoprodotto nel medesimo o in altri cicli produttivi, consiste nel verificare la completa equivalenza (relativamente ai requisiti legali di utilizzo) tra il sottoprodotto e la materia prima normalmente utilizzata come input del processo produttivo in cui il sottoprodotto viene utilizzato in sostituzione della materia prima stessa ed in un’ottica di circolarità dell’economia. Tema particolarmente impattante sotto questo profilo, ad esempio, risulta essere la conformità del sottoprodotto alla normativa REACH/CLP (Regolamento CE 1907/2006 e sue modificazioni successive) e CLP (regolamento CE 1272/2008 e sue modificazioni successive), conformità anch’essa da valutarsi caso per caso a seconda della composizione chimica del sottoprodotto di volta in volta considerato. Anche sotto questo profilo, il D.M. del 2016 non impone un mezzo di prova specifico, ma all’art. 7 rubricato “Requisiti di impiego e di qualità ambientale” indica la “scheda tecnica e dichiarazione di conformità del sottoprodotto ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. n.445/2000” e di cui l’all.2 al D.M. n.264/2016 fornisce un modello, come mezzo di prova potenzialmente idoneo allo scopo.

3. Conclusioni.

Dall’esame della normativa attualmente vigente in materia di sottoprodotti di origine industriale, appare evidente che il contesto attuale è favorevole al cambio di paradigma che sinora ha connotato l’approccio delle istituzioni, delle autorità competenti, degli enti di controllo e della magistratura rispetto ai residui di produzione. Fino ad oggi, infatti, l’approccio dominante è stato quello di considerare maggiormente cautelativa ed auspicabile la qualificazione dei residui come rifiuti, con tutte le conseguenze del caso. L’ordinamento multilivello vigente post 2020, al contrario, suggerisce di valorizzare il principio di prevenzione, prendendo in considerazione senza pregiudizi anche l’iniziativa economica che individua i sottoprodotti, con tutte le conseguenze del caso.

Tale cambio di paradigma è senz’altro dimostrato dall’impulso che Ministero e Regioni stanno dando in questi ultimi anni all’adozione di norme chiarificatrici sul tema ed a strutturare meccanismi di monitoraggio sull’implementazione degli strumenti diretti all’attuazione in concreto del modello di circolarità dell’economia che costituisce l’attuale riferimento della normativa ambientale comunitaria e nazionale.

Questo clima di maggior favore nei confronti della classificazione dei residui quali sottoprodotti è certamente positivo per lo sviluppo industriale del nostro paese e va certamente colto come importante opportunità per le imprese. Per non incorrere in contestazioni, l’opportunità va colta tenendo presente l’attuale quadro normativo e giurisprudenziale ponendo particolare attenzione al sistema delle fonti in essere e rifuggendo il miraggio delle semplificazioni, considerando con particolare attenzione previsioni regionali che, pur apparendo appunto semplificatorie rispetto alle norme nazionali, qualora si pongano in contrasto con le norme primarie, potrebbero rendere contestabili le scelte imprenditoriali effettuate sulla loro base.


[1]Art. 185 co.1 lett. a del d.lgs.n. 152/2006, annovera ad esempio gli scarichi e le emissioni in atmosfera tra le

esclusioni.

[2] Art. 180 co.2 lett. f del d.lgs.n.152/2006, articolo sostituito dal d.lgs.n.116/2020 “Attuazione della direttiva UE 2018/851 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti e attuazione della direttiva UE 2018/852 che modifica la direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio”.

[3] Art. 180 co.2 lett. l del d.lgs.n.152/2006, articolo sostituito dal d.lgs.n.116/2020 “Attuazione della direttiva UE 2018/851 che modifica la direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti e attuazione della direttiva UE 2018/852 che modifica la direttiva 1994/62/CE sugli imballaggi e i rifiuti di imballaggio”.

[4] L’ Osservatorio nazionale per l’Economia Circolare, costituitosi in base alla SNEC ed insediatosi nel dicembre 2022, nel verbale della riunione di insediamento dichiara che l’obiettivo della Strategia Nazionale per l’Economia Circolare è proprio quello di “passare da un’economia lineare ad un’economia circolare”.

[5] Per simbiosi industriale si intende l’interconnessione tra filiere industriali, anche molto diverse tra loro, al fine di agevolare il più possibile l’individuazione di materiali esitati da alcuni cicli produttivi (output) che possano fungere da materia prima (input) per cicli produttivi simili o diversi tra loro. La SNEC si spinge anche a suggerisce agli operatori economici di regolamentare la simbiosi industriale mediante lo strumento dei contratti di rete, esistente da tempo nel nostro ordinamento giuridico, ma sinora poco utilizzato a questo fine.

[6] La SNEC adottata nel giugno 2022 dal MASE suggerisce di recuperare lo strumento giuridico del contratto di rete per costruire e regolamentare la simbiosi industriale necessaria per la realizzazione del nuovo modello economico. “Il contratto di rete è un contratto plurilaterale di cooperazione interi-imprenditoriale con finalità e caratteristiche che lo contraddistinguono e lo rendono pienamente compatibile con i business model circolari. Infatti, con il contratto di rete – introdotto nell’ordinamento dall’art. 3, comma 4-ter e ss. del DL n. 5/2009 – piùimprenditori, aggregandosi e condividendo idee, iniziative e investimenti, perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità innovativa e la propria competitività sul mercato, sulla base di obiettivi strategici definiti e misurabili e di un programma condiviso di attività da attuare nel tempo” (testo estratto dalla SNEC).

[7] D.M. 13 Ottobre 2016 n.264“Regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti”; Circolare MATTM 30 maggio 2017 n.7619 “Circolare esplicativa per l’applicazione del decreto ministeriale 13 ottobre 2016, n. 264”.

[8] Per responsabilità estesa del produttore si intende quella regola comunitaria e nazionale che, con riferimento alla gestione del rifiuto, rende responsabili sempre e comunque per eventuali gestioni non conformi tutti i soggetti della filiera, dal produttore del rifiuto fino al recuperatore e/o lo smaltitore, indipendentemente da quale di essi sia il soggetto che materialmente ha posto in essere la singola violazione.

[9] Cfr. art. 3 del D.M. 13 Ottobre 2016 n.264. La Giurisprudenza ha recentemente ribadito l’esclusione della FORSU dal novero dei sottoprodotti. La frazione organica dei rifiuti urbani (secondo il Tar Puglia) non è un sottoprodotto ma un rifiuto, in quanto la FORSU non deriva da alcun processo produttivo, ma da processi di consumo, esclusi dalla sfera di applicazione della normativa sui sottoprodotti. Per questa ragione, il TAR Puglia ha escluso che la FORSU potesse essere considerata biomassa ai fini dell’applicabilità delle norme sulla produzione di energia rinnovabile, considerando di conseguenza l’impianto di produzione del biogas da trasformare in biometano un impianto di trattamento rifiuti e non come impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili, con tutte le conseguenze del caso in relazione alla tipologia di autorizzazione alla costruzione ed alla gestione dell’impianto che il proponente è tenuto a conseguire (cfr. T.A.R. Puglia n.724 del 2023).

[10] Considerate ad esempio le seguenti pronunce. a) I materiali che residuano dalla demolizione di una pista aeroportuale (“fresato d’asfalto”) rientrano nel novero dei rifiuti, ferma restando la possibilità di gestirli come sottoprodotti purché ricorrano tutte le condizioni previste dall’art. 184 bis d.lgs.n.152/2006: in particolare, la certezza del riutilizzo va apprezzata con riferimento esclusivo alla fase della produzione e, per accertare se il trattamento cui è sottoposto il materiale prima del riutilizzo possa rientrare nella “normale pratica industriale”, vanno esclusi gli interventi manipolativi del residuo diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo in cui viene utilizzato (nella specie, ai fini del suo utilizzo quale componente del nuovo conglomerato bituminoso il fresato non veniva impiegato “tal quale”, ma era sottoposto a una lavorazione a caldo che, attraverso la miscelazione con altre componenti vergini, dava luogo a un materiale diverso da quello originario – C. Cass. Pen. Sez. III n.53136 del 2017). b) In materia di disciplina dei sottoprodotti, non è richiesto che il residuo produttivo sia utilizzato “tal quale”, in quanto sono permessi trattamenti minimi, che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo presso il produttore o presso altri utilizzatori, rientranti nella normale pratica industriale, come le operazioni di lavaggio, essiccazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione (C. Cass. Pen. Sez. III n.40109 del 2015). c) Vanno esclusi dalla “normale pratica industriale” tutti gli interventi manipolativi del residuo, anche minimali, diversi da quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo in cui il sottoprodotto viene utilizzato. Per questa ragione, i trattamenti consentiti sul sottoprodotto sono esclusivamente quelli che l’impresa normalmente effettua sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire (C. Cass. Pen. Sez. III n. 17453 del 2012).

[11] Vedi ad es. D.P.G./2017/17246 Emilia Romagna del 23 ottobre 2017, che approva la scheda tecnica dei sottoprodotti “polveri e impasti di ceramica cruda, polveri da ceramica cotta, formati ceramici crudi, formati ceramici cotti”; D.G.R. Lombardia 12 aprile 2023 n. XII/134 di approvazione delle linee guida per la gestione delle terre di fonderia di metalli non ferrosi come sottoprodotti o in operazioni di recupero EoW. Va sottolineato che la D.P.G. dell’Emilia Romagna si spinge oltre la normativa nazionale, definendo come costitutiva della qualifica di sottoprodotti l’iscrizione all’elenco presso CCIAA previsto dall’art.10 DM 264/2016, mentre su analogo tema la D.G.R. Lombardia esplicitamente scrive che le linee guida sono uno strumento di supporto ai produttori, ma non costituiscono dei criteri costitutivi ad hoc, risultando necessaria la valutazione caso per caso della sussistenza contemporanea delle quattro condizioni previste dal d.lgs.n.184 bis del d.lgs.n.152/2006.

[12] Tutte le condizioni previste dall’art. 184 bis d. lgs.n.152/2006 devono sussistere contemporaneamente per poter qualificare un residuo come sottoprodotto. Se manca anche soltanto la certezza del riutilizzo, il residuo va considerato rifiuto, con tutte le conseguenze anche penali del caso riguardo al trasporto, alla gestione, all’eventuale discarica abusiva e/o all’abbandono. (Fattispecie relativa ad accumulo sul terreno di residui di lavorazione di lapidei e altri materiali quali asfalto, cemento, piastrelle, laterizi, per i quali mancava qualsiasi piano di caratterizzazione che identificasse il materiale, tanto da convincere gli inquirenti che non sarebbe stato possibile nemmeno identificare il residuo e distinguerlo dal terreno. Tale circostanza rendeva impossibile il riutilizzo del residuo – cfr. C. Cass. Pen. Sez. III n. 36555 del 2022).

Paola Bologna –

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